Il vino toscano: identità e qualità.

L’approfondimento di Massimo Castellani, Delegato AIS Firenze.

Non è facile per nessuno riassumere in poco spazio i motivi del successo che nel tempo il vino toscano ha riscontrato sui mercati internazionali. Da toscano non posso che constatare che il nostro movimento è riuscito ad essere vincente attraversando, anche nel recente passato, fasi seriamente critiche che hanno rischiato di mettere in ginocchio l’intera economia vitivinicola della regione. Fasi superate solo grazie alla straordinaria capacità di risposta che, anche nei momenti peggiori, i produttori toscani hanno saputo mostrare, adattandosi ad un mercato che evolveva sempre più velocemente e puntando soprattutto sulla qualità dei prodotti.

Penso che la chiave di volta del successo della viticultura toscana sia stata la presa di coscienza che ha portato i produttori a perseguire nel lungo termine l’obiettivo di accrescere in modo sostanziale la “bontà” dei vini. Un percorso avviato alla metà degli anni ’80 con nuovi investimenti nel reimpianto dei vigneti (e la contestuale applicazione dei risultati della ricerca agronomica più innovativa al fine di ottenere una sempre maggiore qualità dei frutti), e proseguito con investimenti nelle strutture e col rigore del lavoro in cantina, che ha saputo affiancare alla tradizione toscana l’utilizzo di metodologie all’avanguardia. Un mix che, unito alla caparbietà degli imprenditori e alla forza delle organizzazioni consortili, ha consentito da un lato di acquisire nuovi spazi su mercati più remunerativi che in precedenza erano, di fatto, quasi un monopolio di prodotti francesi; dall’altro, di comunicare efficacemente non solo l’incremento qualitativo dei nostri vini, ma anche di inserire questo messaggio in un contesto di valori più ampio, parte di un lifestyle che non si riduce al solo atto di consumo. Si farebbe fatica a comprendere la matrice di ciò che in molti hanno definito un vero e proprio rinascimento enologico toscano senza considerare l’efficacia di un messaggio incentrato soprattutto su valori culturali, all’interno del quale il vino ha giocato un ruolo fondamentale, una sorta di catalizzatore di un insieme di forze altrimenti inespresse.

Nel mondo, infatti, “essere” in Toscana significa essere proiettati in un benessere quotidiano fatto di cultura, natura, storia, arte e, chiaramente, di eccellenza enogastronomica: un paradiso in terra, insomma. Per mantenere questo status, come ben sanno le aziende vitivinicole della nostra regione, è necessario confermarsi su standard qualitativi molto alti e prestare la massima attenzione agli stimoli che provengono da ogni parte del mondo. In sostanza sono due i parametri, molto legati tra loro, che hanno permesso questo successo: la realizzazione di una precisa identità e la consolidata originalità dei prodotti. L’identità vinicola toscana ha, anche sul piano giuridico, un’origine storica precisa perché fu sancita per la prima volta con il bando emanato il 24 settembre 1716 dal Granduca Cosimo III de’ Medici. Questo fondamentale atto pose la prima base identitaria dei vini toscani e fu l’antesignano di ciò che oltre due secoli dopo sarebbero diventate le moderne Denominazioni di Origine. Il prodotto enologico, infatti, doveva riconoscersi con il nome del territorio da cui proveniva e, in aggiunta, doveva essere garantito da una normativa sul controllo sulla produzione e trasporto (bando del 18 luglio 1716) e su una definizione precisa dell’area viticola corrispondente alla denominazione di quel vino. Questo primo passo – anche se allora si rivelò fallimentare nel riverbero sui mercati del Nord Europa – ha però segnato, nella storia mondiale del vino, una tappa fondamentale nell’affermazione identitaria di un prodotto della terra.

Anche grazie a questo fondamentale provvedimento, nei secoli successivi il consumatore ha imparato a riconoscere l’identità dei nostri vini, attribuendogli un segno distintivo nei confronti di altre aree vitivinicole del mondo, non altrettanto ricche – o addirittura povere – di storia e tradizione.

Ma cos’è che, in sostanza, identifica un bicchiere di vino toscano?

Sicuramente la qualità, che è però raggiungibile ovunque, nel rispetto di un buon lavoro in vigna e in cantina e quindi, da sola, non sembra essere un criterio distintivo sufficiente. La nostra carta vincente, in assoluto, è l’originalità dei vini, un concetto che può sembrare astratto ma che si concretizza attraverso la somma dei differenti caratteri che lo compongono. In primis, l’originalità dei nostri vitigni autoctoni, di cui il Sangiovese è da tempo la bandiera indiscussa.

Nonostante gli ultimi studi sul DNA gli attribuiscano un’origine non toscana, è proprio nel nostro territorio che questo vitigno esprime una vocazione qualitativa non replicabile altrove. Come sostiene il grande enologo Franco Bernabei, molto attivo in Toscana: «Il Sangiovese sta alla Toscana come il Pinot Noir sta alla Borgogna». La bellezza del Sangiovese sta nel suo “trasformismo” e nella sua variabilità genetica, caratteristiche che lo rendono poliedrico, affascinante e appassionante, capace com’è di annullarsi e di rinnovarsi nell’ambiente in cui cresce. Ciò rende i vini prodotti con questo vitigno non replicabili altrove e con sfumature sempre diverse, senza però mai smentire la matrice organolettica di base.

Questo privilegio – per alcuni ritenuto un limite – è invece un punto di forza, proprio nell’ottica della diretta corrispondenza fra terroir e vite: è anche così che si spiega la sensazione di fascino e di mistero che si crea ogni volta che si approccia un vino toscano.

Ma il successo della Toscana enologica si lega anche all’aver dato un volto del tutto nuovo e mediterraneo a vitigni alloctoni come i due Cabernet, il Merlot e il Syrah, tanto per citare i più coltivati di questa categoria. Un’interpretazione nuova, fatta di solarità ed eleganza, contro la rigidità e le stereotipate versioni generate, ad esempio, nel Nuovo Mondo. Da noi tutto si toscanizza, anche gli irriducibili vitigni bordolesi: a Bolgheri, ad esempio, si può parlare di quei vitigni come di genius loci di quel territorio, facendo riscoprire quella vocazione di produrre grandi rossi da invecchiamento anche lungo le coste – smarrita da tempo – che ha fatto da riferimento per altre zone marittime italiane. Il fenomeno Bolgheri ha trasmesso la coscienza e la consapevolezza che tutte le aree marittime potevano tornare a produrre grandi vini rossi con piena autorevolezza, perché quegli habitat erano capaci di dare alla luce vini dalla lunga evoluzione e di ottima qualità, alla stregua dei territori collinari dell’entroterra.

Ma dove sta l’originalità del terroir toscano?

Da un lato nella solarità dell’intera regione, che dappertutto può contare su un clima favorevole alla viticoltura; dall’altro nel sottosuolo ricco di calcare, marne e arenarie, che sia per i vitigni autoctoni che per gli alloctoni crea condizioni ottimali per regalare al vino eleganza e finezza, narrate attraverso una sicura spina dorsale tannica e un piacevole dinamismo gustativo dato dall’acidità e dalla sapidità.

Questa “dinamicità” in bocca – che può rendere il vino apparentemente meno facile e sicuramente meno “piacione” – ci induce a credere che il pubblico che oggi apprezza e premia la nostra produzione sia rintracciabile soprattutto tra i winelovers e i gourmets, per i quali più che la soddisfazione parziale e temporanea del palato che si ottiene attraverso effimere morbidezze, è importante la concretezza delle sensazioni e un efficace e gradevole abbinamento con le preparazioni culinarie.

L’originalità dell’enologia toscana si completa anche attraverso l’esperienza dei nostri produttori, che forti di una storia e di una tradizione secolare riescono a rendere attraenti e speciali i propri vini, comunicando passione, rispetto per la terra e la cosciente responsabilità di trasmettere la grande cultura del vino toscano.

Proprio nel rispetto dell’ambiente sono sorti numerosi distretti biologici, tra i quali il Chianti Classico svolge certamente un po’ il ruolo di capofila, proprio per l’alta percentuale (oltre il 30% delle vigne) di condivisione di tale modello di conduzione: la Toscana si attesta oggi al 18,4% di vigneti biologici certificati, con tre punti percentuali sopra la media nazionale, in continuo e costante aumento. Questo movimento vede varie sfaccettature interpretative, con aziende che sposano una basilare conduzione biologica in vigna e in cantina fino ad aziende che, invece, sono approdate alla filosofia biodinamica e al cosiddetto ‘naturale’. In entrambi i casi possiamo affermare che, nonostante alcuni inizi un po’ naif nell’affrontare l’enologia bio, oggi i vini toscani – e questo vale anche per tutta la produzione da viticoltura più convenzionale – hanno mantenuto nella stragrande maggioranza dei casi la barra a dritta verso il buono, pulito e giusto.

D’altro canto, la continua sperimentazione e l’incessante spirito di ricerca, connaturati nel DNA dei toscani, hanno spinto i nostri vignaioli a cimentarsi anche con pratiche enologiche innovative: ad esempio con le vinificazioni in anfora – con l’argilla necessaria ai vasi vinari estratta da depositi locali – o con i tentativi ben riusciti di creare spumanti Metodo Classico da uve Sangiovese o Trebbiano.

Volendo dare uno sguardo d’insieme agli areali e ai terroir che compongono il “Vigneto Toscana” possiamo suddividere la regione in due macro-aree: una più orientale (la Toscana centrale) e una occidentale (la costa tirrenica).

Nella Toscana centrale, dove la pratica dell’uvaggio ha lunghe tradizioni ed è codificata nei disciplinari di produzione di Chianti, Chianti Classico, Vino Nobile di Montepulciano, Orcia, Montecucco, Brunello di Montalcino ecc…, il Sangiovese ricopre da sempre – e direi sempre più – il ruolo di protagonista assoluto, molto spesso anche di solista, con produttori impegnati ad esaltarlo nelle molteplici identità territoriali. Il vitigno, che permea tutto il vigneto toscano, sembra in continua ricerca di altri luoghi benedetti dalla natura – oltre a Montalcino – in cui affrancarsi dai propri complementari, locali o internazionali che siano.

La sua capacità di “annullarsi”, ossia di mutare assumendo vesti e consistenze diverse e consentendo alle variegate impronte territoriali di emergere, rende in qualche modo “magico” questo vitigno, unico e ineguagliabile. Prendendo come esempio la sola denominazione del Chianti Classico che insiste in un territorio limitato compreso tra Siena e Firenze, si possono mettere in evidenza le diverse declinazioni che assume il Sangiovese: dalla sottigliezza acuta dei vini di Radda alla femminilità di quelli dell’Alta Val di Greve, dalla generosità di quelli di Panzano alla forza espressiva di Castellina, per finire con l’impronta tannica dei vini di Gaiole e di Castelnuovo Berardenga. E distinzioni di questa ampiezza si potrebbero rilevare anche all’interno dello stesso comune e qualche volta anche della stessa azienda.

Per rimanere sullo stesso versante interpretativo, Montalcino e il suo Brunello rappresentano un esempio eclatante della variabilità espressiva del Sangiovese, con vini che cambiano di intensità, profumo e carattere in relazione all’esposizione sui versanti della collina ilcinese e all’altitudine delle vigne. Fattori e condizioni pedoclimatiche che danno un volto mascolino al Sangiovese Grosso del Brunello, ma che al contempo sono capaci di attribuire note di rara eleganza ed una eccezionale longevità.

In questa visione “sangiovesista”, non possiamo non pensare alle declinazioni, più calde ma eleganti, dell’area poliziana e della Val d’Orcia, dove il gradiente termico è più elevato e sviluppa integralmente il corredo polifenolico del Sangiovese: Vino Nobile di Montepulciano, Orcia e Montecucco rappresentano il volto forse più femminile del vitigno, perché la concentrazione e il corpo si coniugano a un’idea di pseudo-morbidezza che ne esalta la potenza tannica.

La grande adattabilità del Sangiovese si presta anche a sperimentazioni impensabili solo qualche anno addietro: utilizzi non convenzionali del Sangiovese hanno dato origine a notevoli spumanti vinificati con Metodo Classico; o ancora a vini rosati ottenuti non tanto e non solo con la pratica tradizionale del salasso, ma sulla base di progetti indipendenti che privilegiano le vinificazioni “in bianco”.

Spostandoci verso il nord della Regione altitudine e geologia scandiscono una molteplicità di stili. Le condizioni climatiche più severe a ridosso degli Appennini danno origine a vini dal carattere fresco, come i Chianti Rufina, e permettono la coltivazione di un vitigno nordico come il Pinot Nero (presente a Pomino da 150 anni!) che ha trovato oggi dimora in piccole vigne sparse lungo la catena preappenninica, dal Casentino al Mugello alla Lunigiana.

In provincia di Prato, i Carmignano sono apprezzati da secoli per quell’accento esotico dato dal Cabernet in unione col Sangiovese, mentre in provincia di Arezzo alla delicatezza dei Chianti Colli Aretini si accosta la potenza di rossi a base di vitigni internazionali, coltivati con successo sia nella storica zona del Valdarno sia nelle colline di Cortona, dove il Syrah beneficia del riverbero di luce e calore del Trasimeno.

In una terra di grandi vini rossi la collina di San Gimignano rappresenta un’eccezione di grande spessore, con la sua bianca Vernaccia già citata da Dante e prima DOC riconosciuta in Italia nel 1966. Una denominazione che ha progressivamente riacquisito un’identità ed un profilo indipendente; compito non facile in una regione dominata dal Sangiovese.

A differenza di altre denominazioni, la Vernaccia non ha mai cercato di introdurre aromaticità che non le appartengono per gareggiare con produzioni bianchiste di altre regioni italiane; al contrario, ha esaltato la sua specificità, quella di essere un bianco gustoso in bocca, capace di esaltarsi evolvendo, ricreando un profilo olfattivo grazie alla maturità e alla sua forza per vincere il tempo.

La seconda regione enologica della Toscana (la costa tirrenica) dà risultati eccellenti specialmente con i vitigni internazionali, spesso in blend seguendo il consolidato modello bordolese, ma anche con esaltazioni mono varietali, che alcuni areali rendono eccellenti come pochi altri luoghi al mondo. È il caso, ad esempio, del Cabernet Franc nelle province di Pisa e Livorno. Il caso Bolgheri, come abbiamo visto, è un successo per tutta la costa toscana e una rivincita per tutte le vigne rivierasche italiane, dove per tradizione o per scoperta albergavano uve rosse. Inoltre, in Toscana la vocazione marittima si esprime anche nelle denominazioni Val di Cornia e Suvereto, Terratico di Bibbona e Montescudaio, territori di sperimentazione di vitigni alloctoni e autoctoni, oltre che di moderne tecniche di vinificazione di ispirazione internazionale. Più fedele alla tradizione del Sangiovese è la Maremma, con il Morellino di Scansano e il Monteregio di Massa Marittima, area nella quale il clima marittimo impone ai vini una decisa accelerazione strutturale.

L’unico caso toscano in cui la coltivazione di vitigni a bacca bianca è maggioritaria, soprattutto col Vermentino, è rappresentato dai Colli di Candia e dai Colli di Luni, in provincia di Massa Carrara. Proprio il Vermentino merita una piccola parentesi, per il suo ruolo di portabandiera dei bianchi costieri dell’Alto Mediterraneo, nell’interpretazione più fedele e camaleontica dei vari terroir (la nostra costa, quella ligure, la Sardegna, la Corsica, la Provenza e il Languedoc-Roussillon). Infine, la Lucchesia, che pur restando legata alla presenza di vitigni autoctoni (Sangiovese e Ciliegiolo) ha sposato la coltivazione di Merlot e Cabernet, mentre fra i bianchi – oltre all’autoctono Trebbiano – sono qui coltivati da decenni Chardonnay e Sauvignon.

Infine, non possiamo non citare la viticultura dell’Elba, dove Sangiovese, Procanico (Trebbiano), Vermentino e Ansonica danno vita a vini secchi, mentre l’Aleatico eccelle nella versione passita.

Come abbiamo visto, la Toscana è un universo enologico con un potenziale straordinario, a mio avviso ancora non completamente espresso. È indubbio che la vocazione dei terroir e qualità dei vini sia alla base del suo successo, tuttavia questo non sarebbe stato possibile senza la concomitanza di ulteriori elementi che poco hanno a che vedere con le sue dotazioni naturali. A questo risultato hanno contribuito in modo determinante la propensione al rischio delle imprese, che hanno continuato ad investire e “a crederci” ben prima che il vino diventasse un fenomeno di moda; vi hanno contribuito i Consorzi di Tutela, che con pazienza e determinazione hanno favorito la conoscenza dei nostri vini su mercati che fino a pochi anni addietro sembravano inaccessibili; e ultimo, ma non meno importante, per la passione e la competenza che pervade il mondo enologico toscano. Una cultura diffusa e profonda che ne condiziona l’operato. Da sempre.

Massimo Castellani
Delegato AIS Firenze e giornalista enogastronomico