L’olivicoltura biologica in Toscana.

Sono varie le risposte che ricevo quando mi capita di domandare a qualcuno cosa intenda per “olivicoltura biologica o olio biologico”. Nella migliore delle ipotesi mi dicono “il mio è Bio per forza, non do nulla all’oliveto!” oppure “il mio olio è biologico perché non lavoro mai i campi e tengo tutto a prato!”; la migliore è stata “il mio oliveto è biologico perché l’impollinazione la faccio con le api…”. Battute a parte, questo denota che ancora vi sono realtà in cui c’è poca chiarezza e conoscenza del concetto di agricoltura biologica.

A distanza di tanti anni dall’approvazione del primo regolamento europeo (reg. CEE n.2092/91), in Toscana la superficie olivicola gestita in agricoltura biologica è in costante aumento e l’offerta di olio biologico proveniente dalla Toscana non è più una chimera.

Tuttavia, a mio avviso, per l’olivicoltura c’è ancora tanta strada da fare, non solo in termini di consapevolezza dell’importanza che ha il lavorare in regime di agricoltura biologica o consumare più prodotti che provengono da queste coltivazioni, ma anche relativamente alla gestione tecnica in campo.

Per comprendere, ma senza giustificare, il perché esistano evidenti difficoltà (o meglio “incertezze”) nella conduzione dell’olivo in biologico, dobbiamo partire dalla considerazione che la nostra olivicoltura è modesta in termini di superfici e potenziale produttivo, se confrontata con il panorama italiano. Abbiamo, infatti, una superficie ad olivo di poco superiore a 91.000 ettari, per il 90% diffusa in territori collinari o della bassa montagna. Il numero di frantoi attivi è circa 415 e la produzione media corrisponde al 2,5-3,6% (variabile tra le annate) della produzione nazionale.

Di contro, la qualità dell’olio prodotto in questa regione – e soprattutto la sua fama – hanno determinato lo sviluppo di imprese commerciali che confezionano in Toscana oli provenienti anche da altre parti d’Italia, ma anche d’Europa o da paesi extra UE, che di toscano hanno solo la sede dello stabilimento di confezionamento.

Inoltre, il fatto che la maggioranza delle aziende olivicole siano anche viticole e produttrici di vini la cui qualità è riconosciuta (al pari dell’olio) in tutto il mondo, “complica” le cose dal nostro punto di vista.

La vite si avvantaggia di alcuni aspetti climatici (caldo, giornate fresche, asciutte e ventilate) durante le fasi finali della maturazione delle uve, mentre le olive, anch’esse in maturazione nello stesso periodo, preferirebbero escursioni termiche giorno/notte (e questo anche per l’uva è ottimale), ma soprattutto hanno bisogno di un certo numero di giornate fredde al termine del periodo. Non mi vengono in mente annate “eccellenti” per la qualità dei vini ed altrettanto soddisfacenti per quella degli oli, proprio perché le condizioni climatiche che determinano la migliore maturazione fisiologica dell’uva (accumulo di zuccheri) stimolano la continua produzione di zuccheri anche nell’oliva, che però, a differenza dell’uva, devono essere trasformati in grassi.

Se questo avviene quando contemporaneamente continuano ad accumularsi gli zuccheri perché fa caldo, si innescano tutta una serie di problemi fitosanitari difficilmente contenibili, compresa una maggiore suscettibilità agli attacchi della mosca, capaci di compromettere la qualità dei frutti sia dal punto di vista sanitario che del risultato organolettico finale.

Se facciamo caso al fatto che, anche in Toscana, sono in aumento le annate in cui la raccolta delle olive inizia quando ancora non è terminata quella delle uve, comprendiamo come sia complesso gestire l’olivicoltura mantenendo quei livelli qualitativi a cui siamo abituati.

Dal punto di vista agronomico inoltre, aumentano i rischi di patologie sulle piante che vengono danneggiate dalla raccolta effettuata quando queste sono ancora in attività vegetativa. In agricoltura biologica diventa sempre più importante tornare ad eseguire quelle sane pratiche agronomiche un tempo radicate nell’uso della civiltà contadina, che garantivano quella protezione preventiva delle piante con la quale si contenevano seriamente i danni, ad esempio da rogna o occhio del pavone.

Se pensiamo che un tempo, quando si coglievano le olive, indossavamo giacconi e guanti di lana, mentre oggi siamo spesso in maniche corte e le zanzare, così come anche altri insetti, sono ancora molto attive, dobbiamo essere consapevoli delle diverse condizioni in cui ora siamo chiamati ad operare.

Probabilmente, le difficoltà che mediamente registriamo nel condurre la nostra olivicoltura biologica vanno ricercate proprio in questa fotografia produttiva, dove il vino rappresenta la fonte di reddito principale per cui l’attenzione e la cura sono sempre il massimo dell’espressione professionale, mentre l’olivo è meno seguito, ed in certi casi per niente “condotto”, perché i suoi costi sono ancora molto (troppo) elevati in relazione ai ricavi che se ne possono ottenere.

Altro aspetto da valutare, perché strettamente dipendente da quanto sopra affermato, è la poca preparazione dei tecnici ad oggi impegnati in olivicoltura nella nostra regione, i quali, ovviamente, non hanno potuto sviluppare un’esperienza pratica approfondita, ripetuta e costante, come invece è stato possibile per altre coltivazioni (non solo nella viticoltura, ma anche nella cerealicoltura, frutticoltura o orticoltura). In olivo si è lavorato spesso marginalmente, utilizzando un approccio pari a quello agronomico di base, con concimazioni (rare) o interventi di difesa (rari anche questi) basati sull’avanzo di prodotti acquistati per altre colture, consigliati dai rappresentanti commerciali.

Semplificando il concetto, si assiste a due differenti “approcci professionali”: da un lato, si registra una scarsa “sensibilità” da parte del tecnico che affronta i problemi di una conduzione in biologico, spesso con modalità “semplicistiche” adatte più ad una gestione chimica, dove ci si limita ad acquistare il prodotto appena si rileva il problema in campo e a distribuirlo con le stesse attrezzature e modalità adottate in agricoltura convenzionale. L’altro modus operandi, a mio avviso anacronistico, prevede l’applicazione di rimedi in uso nel tempo delle generazioni passate, convinti che il rispetto del significato della parola biologico, da bios = vita e logos = parola, consista nel riproporre un’operatività antica, propria della vita contadina all’epoca dei nostri nonni e bisnonni.

Nell’uno e nell’altro modo, ci sono dei limiti.

Nel primo caso, i risultati sono fortemente a rischio perché agricoltura biologica non significa continuare ad avere la stessa mentalità produttiva precedente alla conversione, acquistando soltanto prodotti (concimi o anticrittogamici) dove sulle confezioni vi è scritto “ammesso in agricoltura biologica”; dall’altro, non è possibile produrre oggi come si produceva 50 o 90 anni fa, perché le condizioni ambientali sono cambiate, così come le aspettative, le regole del gioco e la conoscenza degli strumenti a disposizione. Infine, non possiamo prescindere da una valutazione dei costi produttivi perché questi devono essere il più possibile contenuti, sia per consentire la massima diffusione dei prodotti biologici (se sono troppo costosi se ne può avvantaggiare una parte minore della popolazione), sia perché l’impresa produttrice può pianificare meglio gli investimenti per lo sviluppo e la crescita, obiettivi prioritari di ogni impresa sana.

D’altra parte è prevedibile che una coltura considerata marginale, che non produce sufficiente reddito e che anzi è un costo per le imprese, non poteva stimolare lo sviluppo di quelle professionalità che invece abbiamo in altre branche della nostra agricoltura. Oltre questo, non si può non tenere conto che uno degli effetti della globalizzazione e dell’aumento degli scambi sia commerciali che della conoscenza, ha determinato cambiamenti nel panorama delle avversità biotiche che colpiscono l’olivicoltura. Se un tempo “occhio del pavone”, “mosca delle olive”, “tignola” e “rogna” erano causa dei principali problemi, oggi abbiamo nuovi nemici quali “cimice asiatica”, “cicalina asiatica”, “scarabeo giapponese”, oltre alla tristemente nota “xylella” dell’olivo.

In conclusione, ciò che in generale ancora manca è una cultura del “fare biologico”, una cultura che forse trova nel termine biologico alcuni limiti concettuali. Siamo convinti che oggi si debba ragionare “a largo spettro di azione”, giocando in anticipo (come a scacchi), prevedendo tutte le mosse dei nostri nemici, abiotici e biotici.

L’inizio di un cambiamento nella mentalità degli operatori è comunque già iniziato.

Siamo tutti più sensibili verso l’ambiente oggi rispetto a quando sono state scritte le prime regole sul biologico. I tecnici di ora, giovani, hanno voglia di contribuire a questo movimento “culturale” di pulizia del pianeta e, nel nostro piccolo, possiamo fare tanto perché l’agricoltura, l’agronomo ed il tecnico agricolo diventino, di fatto, maestri di educazione ambientale oltre che, ovviamente, protagonisti di processi produttivi.

È per questo che siamo tutti positivi e, come sempre accade, è proprio il susseguirsi di troppe annate “storte” nell’olivicoltura toscana (a partire dal 2014) che ha generato tra gli imprenditori la voglia di riscatto e la presa di coscienza che solo attraverso un alto livello professionale si possano portare a casa dei risultati soddisfacenti.

Fiammetta Nizzi Grifi
Agronomo – Responsabile tecnico Chianti Classico