Dagli anni ‘50 ad oggi, un modo di pensare biologico.

Intervista a Giacomo Grassi, Azienda Agricola Grassi.

Gentile Giacomo, ci presenti la sua azienda.
È stato il sogno di mio nonno, un agricoltore che desiderava essere proprietario di un’azienda da coltivare con la famiglia. Così, agli inizi degli anni ottanta, mio padre e mia madre, Rolando e Elena Grassi, acquistarono i terreni adiacenti la loro casa, dando inizio a una riforma totale dei vigneti e degli oliveti, con lavori di scasso e di piantumazione dei nuovi impianti. Nel 1996 insieme a me, che nel frattempo avevo studiato all’Università e perfezionato l’arte della coltivazione e della produzione di olio extravergine di oliva, diedero vita alla prima produzione di monovarietali ribattezzati con il nome del nonno: “Olinto”. Nel 1999, dalla fusione di tre terreni confinanti con quelli di famiglia, creai l’azienda agricola Giacomo Grassi, con una superficie di 25 ettari, coltivati con varietà autoctone.

Come mai ha deciso di operare in bio?
Io vengo da una famiglia di mezzadri che dal 1560 coltiva la terra. Questo fazzoletto è diventato poi parte di un’azienda ben organizzata. Fino al 1952, mio nonno è stato obbligato, dalla sua storia e dalla sua condizione, a produrre bio, anche perché in zona non esistevano, di fatto, i prodotti chimici. Ecco, noi produciamo bio perché ci è stato insegnato e tramandato questo tipo di agricoltura, che più che un metodo è un modo di pensare.
L’avvento dell’agricoltura convenzionale, in cui è previsto l’uso dei pesticidi, è legato al cambiamento della società, che ha richiesto frutta e verdura dai colori fulgidi, prodotta in grandi quantità e sempre disponibile. Gli agricoltori si sono così visti costretti a difendere le derrate alimentari, eliminando patogeni e infestanti. Sono poi stati introdotti gli impianti monoclonali, che hanno agevolato l’uso dei pesticidi per evitare che malattie epidemiche azzerassero il raccolto.
Un tempo, invece, la norma consisteva nella promiscuità delle coltivazioni. Non esistevano appezzamenti intensivi e coltivati alla stessa maniera. Su un filare coesistevano, per esempio, olivo, susino, vite, pesco. La “proda” (interfila) veniva anch’essa coltivata, e la coltura cambiava ogni anno per evitare appunto il proliferare di agenti patogeni. Era tutto in equilibrio, lasciando che la natura ristabilisse l’ordine.
Ora è impensabile che si possa coltivare vite insieme al susino, ma si possono impiantare diverse specie che colonizzano l’interfila, in modo da non utilizzare diserbanti e coltivare specie cannibalizzanti della gramigna, come festuca, orzo, avena, veri e propri competitor delle malerbe. L’utilizzo della chimica per i terreni è assurdo, uccide i microrganismi che sostengono la crescita della pianta, per cui è meglio utilizzare sostanza organica. Negli ultimi 100 anni in Italia è stata dismessa la zootecnia, ma il migliore concime è sempre stato il letame bovino. Si è perso l’uso del fertilizzante naturale per eccellenza, senza costi e controindicazioni, non inquinante e perfettamente metabolizzato dal terreno. Inoltre, bastava tenere a bada la vegetazione, l’eccesso di umidità, in modo da non attirare insetti e funghi. Le regole del bio non sono né più né meno che le regole della tecnica agronomica di mio nonno. Io sono cresciuto con esse e ho scelto di coltivare bio perché mi è davvero venuto naturale, credo nell’etica per la salvaguardia dell’ecosistema e della salute dei miei consumatori.

In termini di costi, ritiene che produrre bio sia più dispendioso?
Nell’immediato produrre con l’ausilio di prodotti chimici è meno costoso, ma nel lungo periodo risulta dispendioso.
L’uso di diserbanti e concimi chimici ha un effetto funesto sulla microflora e la microfauna presente nei terreni, quindi alla lunga le performances del suolo tendono a diminuire e vanno compensate con ulteriori apporti di sostanze chimiche.

I sacrifici economici compiuti durante la conversione sono stati ricompensati? Quali difficoltà ha riscontrato?
Nell’agricoltura biologica c’è bisogno di molta manodopera e i tempi tecnici si allungano. Si passa dai 5 trattamenti annui contemplati dall’agricoltura tradizionale ai 12 della biologica.
È un modo differente di intendere la coltivazione. Alla fine però, noi siamo stati premiati perché le scelte dei consumatori sono sempre più orientate ai prodotti biologici, anche se notiamo ancora differenze tra il mondo vitivinicolo e quello olivicolo.
L’olio bio, infatti, ha un mercato costantemente in crescita, legato all’affermarsi di una concezione salutista della vita. Il vino invece, appare ancora legato al solo gusto immediato, quindi al mero atto di consumo, ed è relativamente indifferente al processo di trattamento delle uve.

Chi produce bio in quale misura è sostenuto dalla consulenza, dalla ricerca e dalle istituzioni?
Il biologico ha inizialmente goduto delle risorse rese disponibili dal Regolamento Comunitario 2080, che a mio avviso ha finanziato soprattutto un cambio di mentalità. Tuttavia, i contributi hanno consentito a molte aziende di spesare i maggiori oneri derivanti dall’aumento del costo della manodopera e del numero di trattamenti, e quindi di adattarsi alle nuove condizioni produttive senza necessariamente appesantire il conto economico. Almeno in una fase iniziale, le aziende hanno gestito la “metamorfosi” proprio grazie ai fondi comunitari e alle Regioni che ne hanno sostenuto la riconversione. La titubanza di molti operatori è stata vinta dal fatto che molti costi per la conversione sono stati coperti dai contributi, anche se minimi, facendo sì che venisse superato il muro della diffidenza. Diversamente, la mia azienda ha attinto a tante forme di finanziamento pubblico per l’ammodernamento parco macchine, anche a fondo perduto, ma non ha mai utilizzato fondi per la riconversione al bio.

Come vede la tendenza a lungo termine? Il bio sarà una scelta etica da adottare per tutti, oppure un’attitudine di mercato passeggera?
Il bio è destinato a crescere sempre di più e a sostituire del tutto l’uso della chimica, poiché ogni anno qualche elemento dal registro nazionale delle molecole autorizzate viene eliminato. Ad esempio, dal prossimo anno non sarà più possibile usare il dimetoato, impiegato per combattere la mosca dell’olivo. Tante molecole oggi sono devastanti per l’ambiente perché vanno a colpire tanti insetti utili. Le epidemie sono determinate dalla rottura degli equilibri naturali.
Bisogna però informare meglio i consumatori, soprattutto sull’impatto delle loro scelte di consumo. Acquistando bio, infatti, si tutela la salute ma anche l’ambiente che si lascia ai posteri. “Bio” è un concetto ampio, che racchiude una molteplicità di valori positivi, e quindi ne va favorita la diffusione ed evitata la sua banalizzazione.

Intervista a cura di Bianca Maria Bove