Il Biologico in Maremma.

Intervista a Filippo Reschiglian, Consulente Agrotecnico.

Filippo Reschiglian è laureato in Scienze Agrarie a Padova, Agrotecnico libero professionista, con due master all’attivo: Progettazione su Programmi Europei e S.G.Q. Settore Agroalimentare. Dal 2015 è responsabile Bio dello Studio di Agronomia Baffetti (SI) ed europrogettista per UNIFI e UNIPD; dal 2017 è anche tecnico di riferimento della Soc. Coop. Valle Bruna (GR), per la quale segue certificazione e sviluppo di importanti realtà Bio della Maremma nord.
La Cooperativa è capofila dello sviluppo Khorasan Bio Italiano in Maremma, del Progetto DRAGO Colline Metallifere e di numerose altre filiere Bio in zona.
Ci ha dato il suo punto di vista sul biologico in Maremma.

Dottor Reschiglian, dalla sua esperienza, quali motivazioni hanno spinto e spingono tuttora le aziende a convertirsi al Bio in Maremma?
Quando si parla di Maremma va detto che ci troviamo di fronte a una macro-area subregionale, vasta e variegata; rispetto ad altri comprensori della Toscana, qui sono rappresentate quasi tutte le forme di agricoltura e zootecnia. Anche qui i “biologici della prima ora” si mossero in questa direzione più per vocazione e cultura personale che per effettiva domanda di mercato. Oggi l’esigenza di convertire una superficie al bio, deriva quasi sempre da motivazioni più oggettive completamente svincolate da elementi ideologici. I mondi del vitivinicolo e olivicolo, per natura a stretto contatto con i propri canali di distribuzione, risentono della necessità di “accontentare” la sensibilità di eventuali mercati di riferimento: Nord Europa, Canada. Altri operatori arrivano alla certificazione Bio come conseguenza naturale della progressiva integrazione di metodi dei quali toccano con mano i benefici. Per i settori a PLV più ridotta, l’elemento di leva è spesso l’accesso ai contributi ciclici del Psr. Per quest’ultima fattispecie non sempre certificazione di processo corrisponde a certificazione di prodotto.

Quali problematiche ravvisa nella conversione di un’azienda in Maremma?
Come consulente, quando un agricoltore o un proprietario si affaccia dicendomi di voler “fare il biologico” sono tenuto a farlo ragionare in termini di lungo periodo. Il Bio non è un gioco: deve essere un’opportunità, non un limite, e vanno messe in campo le strategie opportune perché sia un elemento di incremento del reddito, non di mantenimento, giammai di perdita. In un orizzonte temporale medio l’azienda deve poter contare sui margini per aggiornare il parco macchine e garantirsi il ricorso al meglio della tecnica agronomica disponibile, al netto di apporti esterni. Come ovunque, anzitutto, l’azienda va resa consapevole di aderire a una certificazione di processo e non di prodotto. Procedure e schemi operativi sono spesso percepiti come zavorre, in un settore in cui le emergenze quotidiane pratiche sono sempre alle porte. Anche in questo caso, dove l’azienda è strutturata e magari già in possesso di schemi di certificazione B2B, il passo è breve, mentre per i produttori primari le carenze in questo senso sono spesso difficili da colmare. Se inquadriamo la questione dal punto di vista strettamente tecnico, sicuramente va detto che la “naturalità” del territorio è un’arma a doppio taglio.
Per fare alcuni esempi, la pressione degli ungulati è un forte limite a inserire con successo alcune colture estensive nei piani di avvicendamento obbligatori previsti dal bio. Ancora, i protocolli di lotta bio sulle principali avversità biotiche dell’olivo, prevedono una frequenza e una tempestività difficilmente inseribili in un’ambiente dove l’olivicoltura ha occupato storicamente superfici marginali a bassa accessibilità. Sia per natura strutturale che per scarsa fiducia degli operatori, approcci di gestione “leggera” del terreno e minima lavorazione sono ancora poco acquisiti. L’adozione del bio non fa che aumentare la propensione a lavorazioni tradizionali e pesanti, con conseguente “effetto tampone” che tende ad annullare alcuni dei benefici ambientali attesi. Complessivamente manca la diffusione di una vera e propria cultura agronomica sul bio, in quanto determinate acquisizioni tecniche tardano ad arrivare. Un’altra carenza strutturale maremmana, che riguarda soprattutto il mondo cerealicolo, è l’oggettiva dislocazione dai più importanti trasformatori industriali di prodotto bio sul territorio nazionale. Ogni volta che una referenza bio lascia la Maremma deve normalmente attraversare un tratto di appennino, il che rosicchia parte del valore riconoscibile all’agricoltore per via dei costi di trasporto. A margine di ciò, va detto che, nelle strutture e nelle istituzioni aggregative, il comparto tecnico è in pieno fermento e spinge l’acceleratore per l’introduzione e l’adozione di innovazioni. Complessivamente nella provincia di Grosseto, lo dico per esperienza, più che in altre zone, si respira un buon clima di collaborazione tra gli operatori del settore. Probabilmente, in un territorio tecnicamente non facile da interpretare, diviene più spontaneo cooperare che anteporsi l’un l’altro.

Qual è a suo avviso oggi l’impatto economico del Bio in un’azienda agricola?
Sicuramente il primo impatto economico da considerare è quello del periodo di conversione. Per esperienza la prima fase è la più ardua, poiché manca la concreta possibilità di valorizzare il prodotto e l’azienda assorbe economicamente tutti i rischi connessi alla mancanza del supporto della chimica di sintesi. Il dopo è tutta una questione di costruire le proprie possibilità. Il bio è diventato un fenomeno trasversale quanto la sua distribuzione, che passa dalle “boutique” alimentari agli hard discount, con tutte le sfumature nella zona di mezzo: media fascia, vendita diretta in shop aziendali. Se per produttori e trasformatori con una distribuzione già consolidata (fresco, vitivinicolo, olivicolo) le difficoltà sono relative, per i produttori primari, finora svincolati da qualsiasi logica di filiera, il passaggio è meno elementare.
In questo contesto il ruolo del “tecnico agricolo” e delle strutture che operano sul territorio, diventa quello di sviluppatori. È fondamentale capire in che direzione si muove il mercato, chi nelle filiere agroalimentari sta producendo cosa e con che caratteristiche; a quel punto, definita con i player industriali una linea di fornitura, devi calare sulle realtà a tua disposizione delle produzioni che spesso richiedono tecniche precise e accurate, tenendo conto della disponibilità, dell’organizzazione e, spesso, anche della sensibilità di ognuno. Toccati con mano vantaggi economici che possiamo tradurre in un 30% di valore medio aggiuntivo rispetto alla medesima referenza convenzionale, l’operatore bio è il primo a dare continuità al proprio agire. Ciò avviene solo una volta che si è collocato in una filiera stabile e nelle sue evoluzioni.

Quali, secondo lei, sono le prospettive di sviluppo per il mondo del Biologico in Maremma?
Anzitutto non dimentichiamo che un territorio come la Maremma, la “California d’Italia”, vende, accanto al prodotto, la propria immagine di territorio rurale: l’idea di sostenibilità globale e di consapevole conservazione del contesto naturale combinato a uno sviluppo armonico dell’attività antropica. In questo contesto, pesa parecchio l’assenza relativa di un vero e proprio trasformatore industriale che riesca a chiudere in zona la filiera delle colture di pieno campo, sigillando la confezione con un vero e proprio “Made in Maremma”. Per fare un esempio l’area in cui opero, una U rovesciata di pianura irrigua e dolce collina circondata da borghi medievali da cartolina, è la cornice ideale per la nascita di un biodistretto. Molti operatori che si riferiscono alla Cooperativa Valle Bruna, tra cui cito l’Uso Civico di Sticciano e Rocca di Montemassi (complessivamente dominano su oltre 400 ettari di seminativo bio), troverebbero in un biodistretto un soggetto comune di dialogo con le istituzioni. L’aggregazione in queste forme, oltre alla risonanza mediatica, permette di presentarsi agli interlocutori deputati allo sviluppo rurale, con istanze e direttrici di sviluppo davvero “placebased”, con benefici di più lungo respiro rispetto al semplice effetto singhiozzo delle misure agroambientali a superficie. Ancora, a mio avviso, andrebbero esplorate filiere a PLV più elevata, specialmente se bio; mi riferisco a tutto il comparto di aromatiche e officinali che costituiscono, tra l’altro, un’ottima vetrina per l’immagine del territorio. Se vogliamo far crescere quest’area gli operatori vanno fatti aprire al mercato, vanno resi sempre consapevoli del perché ci si orienta al bio, di quali sono rischi e opportunità.

Intervista a cura di Bianca Maria Bove