Perché gli spumanti italiani hanno conquistato il mondo?
Ce lo racconta Marco Sabellico.
Tralasciamo le tracce del vino spumeggiante disseminate nelle pagine degli scrittori classici. Dal 1500 in poi in Italia si producevano con una certa sistematicità vini frizzanti e spumanti. Nomi come Gerolamo Conforti (Franciacorta, 1570) Gian Battista Croce agli inizi del Seicento con il Moscato d’Asti, Francesco Scacchi (Marche,1622) ci danno la misura di come ben prima delle case spumantistiche piemontesi classiche, come Cinzano e Gancia, che a metà dell’Ottocento diventano realtà consolidate, si riflettesse sui metodi d’elaborazione di vini frizzanti e “mordaci”. Poi con Antonio Carpenè, Federico Martinotti (l’inventore dello spumante in autoclave) e Giulio Ferrari il panorama si allarga, tra fine Ottocento e i primi del Novecento, abbracciando zone, uve e tecniche diverse.
Sì, oggi il Prosecco nelle sue varie declinazioni, Superiore DOCG e DOC, è una corazzata che ha conquistato il pianeta, con oltre 600 milioni di bottiglie annue prodotte. È il trionfo dello stile italiano, di una tipicità fatta di un’uva locale – la glera- e di territori vocati, dal comprensorio collinare di Conegliano-Valdobbiadene e Asolo per i DOCG (90 milioni di bottiglie), fino alle nove provincie che dal Veneto al Friuli sono il territorio del Prosecco DOC dove si produce il resto. Insieme, questo territorio è la più importante – per produzione – Denominazione spumantistica del mondo.
Con Conegliano Valdobbiadene che punta al riconoscimento tra i siti del World Heritage dell’UNESCO.
Alla base del suo successo la freschezza dei profumi, un bouquet inconfondibile di fiori e frutta matura, una bocca sapida, leggiadra e fresca, che ripropone le delicate sensazioni aromatiche e di frutto, che viene declinata in stili che dal secco Brut vanno fino ai Dry più dolci e tradizionali. Un vino spensierato e fresco, buono da bere a qualsiasi ora, aperitivo ideale ma anche perfetto compagno a tavola della dieta mediterranea come delle cucine etniche di tanti paesi, dal Giappone al Sud America. Un vino di straordinaria versatilità, insomma, che piace agli italiani (ne consumiamo il 60%) e al resto del mondo e che viene venduto ad un prezzo contenuto che ne fa di fatto un piccolo piacere quotidiano.
Ma se 273 milioni di bottiglie nel 2017 hanno preso la via dell’export, a queste vanno aggiunte altre 213 milioni di spumante italiano, tra metodo classico e Martinotti, che sono state consumate con soddisfazione in tutto il globo.
Il successo planetario di questa Denominazione, allora, non deve faci dimenticare che in Italia di spumante se ne produce molto altro ancora, di ottimo livello, sia rifermentato in bottiglia sia in autoclave come il Prosecco.
Il mondo del metodo classico vanta territori d’elezione e denominazioni importanti. Franciacorta, TrentoDoc, Alta Langa, Oltrepò Pavese sono in grado di emozionare con cuvée straordinarie da uve classiche come i pinot e lo chardonnay, lungamente maturate sui lieviti. Ma tutte insieme, queste DOC e DOCG, ammontano a meno di 30 milioni di bottiglie, e sono consumate prevalentemente da noi italiani: all’incirca meno del 10% prende la via dei mercati internazionali, dove si confrontano con un’altra realtà consolidata da quasi tre secoli di marketing, che è lo Champagne, e che pesa più di dieci volte il piccolo mondo del metodo classico italiano, con 330 milioni di bottiglie, il 50% delle quali bevuto in patria con altrettante che prendono le vie dell’export.
Cosa sono allora gli altri 200 e passa milioni di bottiglie che annualmente vendiamo fuori dall’Italia? Cosa rappresentano? Un mosaico complesso e affascinate fatto di tante e tante uve diverse, di ogni regione, elaborate come spumante con entrambi i metodi.
Il comprensorio più importante, numericamente, è quello dell’Asti, lo spumante dolce più famoso del mondo, che ha fragranze e profumi inimitabili, e che in questi ultimi anni, tra frizzante e spumante, sta dando incoraggianti segnali di crescita tanto in patria quanto fuori. E se con l’Asti si chiude la carrellata delle “grandi” denominazioni, quella delle piccole, tra storiche, emergenti e novità, rischia di non finire mai. Ci sono territori e uve – come il Brachetto d’Acqui o il Verdicchio dei Castelli di Jesi, che da sempre propongono versioni spumanti del loro vino. Ma dal Blanc de Morgex et de La Salle in Valle d’Aosta fino alle cuvée metodo classico bianche e rosé elaborate sulle falde dell’Etna l’elenco è davvero sterminato.
Ormai non c’è più una regione che non vanti uno spumante da uve tipiche, non importa come elaborato. In questi ultimi venti anni abbiamo sperimentato mille vitigni autoctoni scoprendo giacimenti insospettati.
Chi avrebbe detto che negroamaro e sussumaniello in Puglia potessero dare dei Rosé di classe una volta trasformati in spumante? E così anche il gaglioppo calabrese, il nerelle cappuccio e mascalese sull’Etna dove il carricante fa loro da contraltare per il bianco? La Ribolla in Friuli è ormai una realtà di mercato, tra Marche e Abruzzo pecorino, passerina, trebbiano e cococciola ci forniscono eccellenti spunti di riflessione, come il Sannio con le sue cuvée a base di Falanghina. Ogni volta che guidiamo una degustazione in giro per il mondo, appassionati e operatori rimangono affascinati dalla ricchezza dell’offerta enologica italiana. Mille terroir, mille vitigni, mille stili e mille personaggi vanno a comporre un ritratto sempre più ricco e affascinante del paese del vino più “biodiverso” e stimolante da raccontare di tutto il globo. Il settore delle bollicine fino a qualche anno fa sembrava cristallizzato e fossilizzato su tre o quattro grandi nomi, come Champagne, Cava, Asti e Sekt. L’esplosione del fenomeno Prosecco ha riacceso i riflettori sulle bollicine italiane, facendo riscoprire classici quasi dimenticati come il Lessini Durello o l’Erbaluce di Caluso spumante, e siamo sicuri che salverà dall’oblio varietà e denominazioni prossime all’estinzione come l’Asprinio di Aversa, per citarne una. Alla base di tutto questo c’è la straordinaria creatività di produttori ed enologi che non si stancano mai di sperimentare soluzioni nuove ed esplorare le potenzialità dei diversi mercati. Ecco allora l’Asti Secco, il Prosecco Rosé che è ormai annunciato, la riorganizzazione spumantistica del mondo gardesano intorno al Chiaretto… Quello del Prosecco è stato un exploit forse irripetibile nel settore del vino, e delle bollicine in particolare, ma è stato guidato con intelligenza e lungimiranza da chi ha gestito disciplinari e denominazioni. La fortuna dell’Italia, come abbiamo visto, è quella di avere naturalmente tanti ingredienti sul territorio per nuove e appassionanti storie di successo. Gli altri, fatalmente, sono costretti a inseguirci.
MARCO SABELLICO
Giornalista, curatore della guida
Vini d’Italia de Il Gambero Rosso