Da quanto tempo la vostra azienda è certificata bio? Perché questa scelta?
Siamo ufficialmente bio dal 2010. Coltivare bio è uno dei tasselli di un progetto più ampio che ci vede impegnati come custodi, non sfruttatori dell’ambiente che ci ospita: il Parco Naturale del Conero. Vent’anni prima di certificare bio gestivamo già l’azienda secondo criteri di sostenibilità ambientale.
Ha incontrato difficoltà nella conduzione dell’azienda con metodo bio, soprattutto nel periodo di conversione?
Nessuna difficoltà, la certificazione ha formalizzato una prassi preesistente.
E per quanto riguarda le pratiche burocratiche? Rappresentano un problema? In che termini l’organismo di certificazione può fare la differenza in questa fase?
Certamente la burocrazia è una nota dolente, in particolar modo per la certificazione del biologico in cui, a mio parere, non tutta la documentazione richiesta è strettamente funzionale a garantire la tutela del consumatore. Ritengo si potrebbe lavorare seriamente per una razionalizzazione in questo senso. Per quanto riguarda la scelta dell’organismo di certificazione, nella prima fase ci siamo rivolti a un altro ente e, solo da qualche anno, a Valoritalia. Rivolgersi allo stesso organismo di controllo che ci seguiva nella parte del regolamentato ha senz’altro contribuito a snellire le operazioni della certificazione.
In merito al posizionamento sul mercato, la certificazione bio ha migliorato o peggiorato la situazione della sua azienda?
In questi diciannove anni di storia ci sono stati dei notevoli cambiamenti: il marchio bio sul vino, quando abbiamo iniziato, generava una certa diffidenza nel consumatore. Esisteva un preconcetto per cui l’etichetta bio, nel vino, rappresentasse una sorta di escamotage per far accettare vini difettosi in nome di una maggiore “naturalità”. Non ci siamo fatti intimidire perché il nostro progetto aveva una veduta più ampia ed eravamo sorretti, comunque, dalla sicurezza profonda che si potesse ottenere un prodotto biologico di ottima qualità. Col tempo le cose sono cambiate e oggi questa diffidenza si è notevolmente attenuata. I mercati esteri, poi, considerano la certificazione biologica come una conditio sine qua non…
Per quale motivo, a suo parere, le Marche sono tra le prime regioni, in termini di numero di aziende, a certificare bio in Italia?
Mi piace pensare che in questa regione il valore della tutela e del rispetto, non lo sfruttamento indiscriminato, siano alla base della relazione tra l’uomo e la terra.
A partire dalla sua esperienza, che futuro vede per l’agricoltura bio nelle Marche e in Italia?
Penso che il numero di aziende biologiche sia destinato ad aumentare, anche per una forte richiesta del mercato.
Avete deciso di aderire al progetto IOF promosso da Valoritalia come azienda pilota. La scelta del biologico e un approccio di particolare apertura verso l’innovazione tecnologica possono, a suo parere, essere messe in relazione?
Gestire un’azienda a conduzione biologica richiede un particolare approccio organizzativo. Ad esempio, nell’agricoltura convenzionale una grande macchina sparge il trattamento in poco tempo su tutti i vigneti di un’azienda in tempi prestabiliti, senza fare distinzioni di sorta.
Nel biologico occorre valutare i tempi e le modalità con cui intervenire, senza l’uso di prodotti chimici di sintesi, naturalmente, in modo mai uniforme e con strumenti meno impattanti. Tutto ciò comporta una maggiore difficoltà di gestione. Non si tratta di tornare indietro e lavorare alla maniera degli antichi, lasciando semplicemente che la natura faccia il suo corso. Per ottenere dei buoni risultati occorre trovare strumenti alternativi e le nuove tecnologie possono rappresentare un ottimo supporto.
A CURA DI MARILENA MELE
Valoritalia