Carlo Cambi, giornalista e autore

Nel cinquecentenario leonardesco e vieppiù celebrando i duecento anni da quando Giacomo Leopardi compose quel capolavoro assoluto che è L’Infinito, converrà riflettere sul dato antropologico, prima ancora che su quello pedoclimatico e ampelografico, per descrivere qualità e unicità dei vini delle Marche. Il vino è generato dalla terra e dall’uva, ma il suo sostanziarsi è compito dell’uomo che lo fa e gli forma il carattere prima con le scelte di coltivazione e poi con le pratiche di cantina che obbediscono a un progetto. Questa è la prima caratteristica dei vini delle Marche: sono un prodotto e un bene culturale. Che è essenza di territori così mutevoli e peculiari da aver sostanziato la sola regione plurale che si costituisce in valli perpendicolari al mare, tranne una: la Vallesinia da cui sgorga il vino bianco d’Italia più celebrato nel mondo: il Verdicchio che sia di Matelica o dei Castelli di Jesi, che passa in 60 chilometri da montagne alte duemila metri a baie d’infinito bello, che è punteggiata da città murate e badie che si cullano in un mare di vigne e di ulivi, in bonacce di grano, in golfi di frutteti dolcemente carezzati da colline come onde di terra mosse da univoca armonia. Ben lo descrisse Guido Piovene nel suo Viaggio in Italia: “Se si volesse stabilire qual è il paesaggio italiano più tipico, bisognerebbe indicare le Marche, specie nel Maceratese e ai suoi confini. L’Italia, con i suoi paesaggi, è un distillato del mondo; le Marche dell’Italia… La vita contadina acquista nelle Marche il massimo suo splendore, e il lavoro concorre alla bellezza e lucidità del paesaggi”. Ragionando di vini bisognerà pur stabilire che nelle Marche – la regione che più caparbiamente e oggi si può dire in maniera lungimirante ha preservato e perpetuato in produzione i suoi autoctoni – va rideclinato il concetto di territorialità e quello di autoctonia. La territorialità qui va intesa come manifestazione dell’incontro tra l’opera dell’uomo e la natura. I vini nascono da scaltri mezzadri, da un’aristocrazia rurale diffusa, da sapienza claustrale e sono diversissimi perché diversi erano i bisogni e gli scopi, l’autoctonia qui è uva compagna dell’uomo, è vigna domestica! Tanto merito va ai metalmezzadri: gli operai di fabbrica che non hanno mai smesso di coltivare la terra e di produrre vino. La presenza di input tecnico/scientifici ha fatto il resto. Converrà ricordare l’Accademia Georgica di Treia che è tra le più antiche al mondo per gli studi agricoli, l’Agrario di Macerata che fu un archetipico di alta formazione agricola nell’Italia appena post unitaria, l’Università di Camerino che nei secoli ha formato generazioni di botanici, in tempi più recenti la Politecnica delle Marche che ha negli studi agrari ha eccezionali risultati di ricerca. E poi c’è l’industria marchigiana che si è data alla produzione di ausili per l’enologia e vi sono stati studiosi come il Bruni che hanno contribuito a innalzare il tasso di consapevolezza tecnica dei coltivatori. Tutto questo produce l’eccellenza delle Marche che si sostanzia in produzioni di nicchia e di altissima qualità e in produzioni più consistenti, mai massive, e di assoluto prestigio. Così nasce la Vernaccia di Serrapetrona unico spumante a tripla fermentazione, ma oggi curvata a fare peculiari vini fermi, l’Aleatico di Pergola, la Lacrima di Morro d’Alba considerato il rosso più di tendenza d’Italia. Tra i bianchi si riscoprono e si qualificano vitigni quasi vernacolari come la Garofanata, la Ribona o Maceratino mentre la Passerina e il Pecorino, a Offida e non solo, allargano l’offerta bianchista della regione che s’incardina sul Verdicchio dei Castelli di Jesi che ha un successo interazionale davvero esaltante, con il Verdicchio di Matelica enclave di assoluto prestigio. Sono i Verdicchi traduzione immediata in qualità della bellezza e della peculiarità dei territori. Così come il Falerio dei Colli Ascolani e il Bianchello del Metauro sono la traduzione enologica di pregio delle inflessioni gastronomiche della costa. Ci sono poi i due grandi rossi: il Rosso Conero, l’unico Montepulciano che sa di selva, di mare e di corbezzolo e il Rosso Piceno che nelle sue molteplici sfumature, dato anche l’areale ampio, traduce creatività e territorialità dei diversi produttori in maniera sublime, così come il Sangiovese (che pure insangua il Piceno) racconta i Colli Pesaresi con linguaggio sensoriale affascinante. Né ci si può dimenticare che la produzione spumantistica delle Marche – dai Metodo classico con Verdicchio, alla Vernaccia di Serrapetrona, alla Passerina con metodo Martinotti – è oggi di altissimo livello ed è quella storicamente più accreditata, non foss’ altro perché l’elpidiense Andrea Bacci e il fabrianese Francesco Sacchi ebbero a codificare sul limitare del 600 e ben mezzo secolo prima del mitico Dom Perignon la rifermentazione in bottiglia! Altro primato marchigiano che fa dire: sì, questi sono vini territoriali, gastronomici, ma prima di tutto prodotti culturali. Per dirla con Leonardo che ci rammenta: “credo vi sieno omini felici là dove si fanno boni vini” le Marche sono terra felice. Grazie a vini che, come notò Giacomo Leopardi, sono i più efficaci e i più certi consolatori. Perché le Marche dai monti al mare con le sue vigne sono luogo di (colto piacere) infinito!