Come sostiene Giuseppe Liberatore nell’editoriale di questo numero, poco più di vent’anni sono stati sufficienti per modificare profondamente il profilo di tutto il comparto dell’agroalimentare in Italia e, più in generale, in Europa e Nord America.
Uno dei fattori che lo ha maggiormente condizionato – non l’unico, ma certamente uno dei più importanti – è consistito in una evidente evoluzione degli stili di consumo; evoluzione partita all’inizio degli anni ’70 in ristrette élite urbane che richiedevano una maggiore attenzione alla “naturalità” degli alimenti consumati (questo è il termine che si utilizzava comunemente allora per indicare prodotti più sani e “genuini”), ma che col passare del tempo ha progressivamente modellato il mercato, influenzandolo in misura allora impensabile.
In primo luogo noi tutti – chi più, chi meno – in breve tempo siamo diventati più attenti a ciò che consumiamo, specie se si tratta di alimenti, e più sensibili al “modo” con cui si produce. L’irrompere di nuovi stili di consumo ha condizionato la distribuzione, grande e piccola, spingendola a modificare la tipologia dei prodotti offerti, i suoi criteri di selezione, la posizione sugli scaffali, le politiche di prodotto, di marketing e comunicazione, persino influendo sui contenuti della concorrenza. Anche le politiche pubbliche e la riallocazione delle risorse finanziarie destinate al mondo agricolo ne sono state condizionate; infine, ha innescato una profonda trasformazione nella struttura imprenditoriale e produttiva.
Detto in modo ancor più schematico, l’evoluzione della domanda ha condizionato alla radice la struttura dell’offerta, ossia le imprese di produzione e distribuzione, obbligandone almeno una parte a ridefinire il modo di produrre e la propria organizzazione interna, spingendole ad assumere una maggiore trasparenza a garanzia dei consumatori. Per le imprese, produrre in modo “biologico” ha significato non solo soddisfare una crescente quota di consumatori, ma soprattutto adottare procedure e regole definite da una normativa pubblica, ed essere potenzialmente sanzionabili in caso di sua inosservanza. In altre parole, le ha indotte a certificarsi.
Per almeno un ventennio la spinta del “bio” è stata travolgente, con tassi di crescita a due cifre che anno dopo anno l’hanno trasformata da moda in reale valore aggiunto, fino a diventare, in alcuni mercati e per alcuni settori, quasi un prerequisito indipendente da ogni altro criterio di valutazione.
In aggiunta, agli occhi dei consumatori produrre in modo “biologico” è sinonimo non solo di qualità, ma anche di impegno verso le tematiche ambientali, di rispetto della salute umana e animale.
Il suo significato culturale si è esteso dall’iniziale “modo di produrre senza additivi chimici” a sinonimo di sostenibilità ambientale, sociale ed economica e, secondo alcuni, anche a requisito etico.
Ma cosa significa esattamente “bio”? L’agricoltura biologica è regolata in tutti i Paesi nell’Unione Europea e sottende l’applicazione di un metodo produttivo disciplinato con rigore, mediante i regolamento CE 834/07 e s.m.i. (che ha preso il posto dell’originale 2092/91 e che, a partire dal 2021, sarà sostituito da un nuovo Regolamento uscito sulla GUE il 30 maggio 2018).
La produzione biologica, in agricoltura e in allevamento, si basa su tre principi cardine: il rispetto dell’ambiente, il rispetto benessere degli animali e la tutela della salute dei consumatori. I metodi di coltivazione e di allevamento ammettono pertanto solo l’impiego di sostanze “naturali”, ovvero presenti in natura, escludendo l’utilizzo di sostanze di sintesi chimica (concimi, diserbanti, insetticidi).
Significa inoltre, adottare processi produttivi che evitino lo sfruttamento eccessivo delle risorse ambientali, in particolare di suolo e acqua, utilizzando invece tali risorse in misura tale da consentirne la riproducibilità nel tempo.
Infine, la scelta di riconvertire al biologico finisce spesso per condizionare il complesso delle strategie aziendali – dalla comunicazione al posizionamento di prodotto – tanto che molti la considerano un vero e proprio punto di svolta perché vengono ridefiniti gli obiettivi dell’impresa, la sua organizzazione e la struttura dei costi.
Come racconta Giovani Manetti in una delle interviste ad imprenditori che riportiamo in questo numero, gestire un’azienda vitivinicola con un approccio ed una metodologia Biologica non si traduce, necessariamente, in un aumento dei costi di gestione. Ciò che cambia è la sua ripartizione interna, che vede una riduzione dei costi legati agli input chimici ed un incremento del costo del lavoro, perché produrre bio implica tempestività nelle azioni e cura del dettaglio. L’esperienza consolidata nei settore vitivinicolo dimostra, peraltro, che i costi di produzione tendono a salire durante la fase di riconversione e declinano successivamente, fino ad allinearsi alla situazione precedente e, in molti casi, porsi anche al di sotto.

In linea generale un’azienda bio si muove perseguendo una serie di obiettivi che possiamo così schematizzare:
I. produrre alimenti con elevata qualità organolettica;
II. mantenere e migliorare i cicli biologici naturali della produzione agricola e dell’allevamento;
III. accrescere la fertilità del suolo e la biodiversità ambientale;
IV. ridurre progressivamente gli input energetici;
V. promuovere migliori condizioni di vita degli animali.

A questi obiettivi connaturati alla produzione biologica, vanno poi aggiunti quei fattori di ordine economico-gestionale ai quali abbiamo già accennato, come la ricerca di un nuovo posizionamento di mercato per prodotti di qualità più elevata, una nuova comunicazione, trasformazioni organizzative interne ed una più attenta gestione dei costi, fino ad arrivare al rinnovo delle attrezzature tecniche.
Infine non dobbiamo dimenticare che il successo del bio è stato determinato soprattutto dai consumatori, e sono questi ultimi che dobbiamo sempre porre al centro dell’attenzione. Chi decide di acquistare un prodotto bio, sia esso un uovo al supermercato o una bottiglia di vino in enoteca, generalmente lo identifica con un prodotto più salubre, più sostenibile per l’ambiente e socialmente più equo. Per questi motivi da un lato è fondamentale che gli siano date garanzie e certezze su quello che ha acquistato (la certificazione), dall’altro dobbiamo essere consapevoli che in un futuro molto prossimo la sola certificazione bio verrà considerata un requisito necessario ma non sufficiente, una sorta di punto di partenza oltre il quale si intravede un approccio al consumo che coniuga etica e benessere.

ALESSANDRO BARBIERI 
Responsabile dei rapporti commerciali Valoritalia