di GIUSEPPE LIBERATORE, Direttore Generale Valoritalia
Venti anni di crescita ininterrotta: tanti sono bastati alla produzione biologica per affermarsi e modificare profondamente una parte consistente dell’agricoltura, dell’industria di trasformazione e della grande distribuzione alimentare del mondo occidentale. In pochi anni, una quota consistente della nostra economia è stata progressivamente influenzata da un processo nato inizialmente in sordina – una risposta alla domanda di piccole comunità di “consumatori evoluti”, come le definiremmo oggi – ma diventato col tempo una sorta di inarrestabile onda che ha trascinato con sé le certezze di un’epoca. Ciò che pochi anni addietro potevamo definire una semplice e transitoria moda (“prima o poi si sgonfierà”, sostenevano in molti) ha dimostrato, al contrario, una ben più solida capacità di affermarsi e di incidere su una molteplicità di fattori, alcuni evidenti anche al grande pubblico, altri meno visibili ma probabilmente ancor più importanti.
Tra i molti che si potrebbero citare, l’aspetto forse più eclatante è consistito nella progressiva modifica dei nostri stili di vita e di consumo: siamo diventati più attenti alla qualità del cibo che consumiamo, ma la stessa qualità, in quanto tale, in tempi rapidissimi ha finito per diventare una sorta di requisito non sufficiente, alla quale abbiamo poi aggiunto altre specifiche richieste, come le garanzie su salubrità e su un impatto ambientale effettivamente sostenibile. La certificazione bio rappresenta una iniziale risposta a questi bisogni; una garanzia ottenuta con procedure e metodologie stabilite per legge che soddisfa almeno in parte le crescenti esigenze etiche e culturali legate ai consumi, specie se alimentari.
Ma oltre agli aspetti immediatamente percepibili che hanno a che fare con i nuovi approcci al consumo e di cui testimoniano gli scaffali dei supermercati (esiste, oggi, una catena di distribuzione che non ospiti prodotti biologici, anche a marchio proprio?), l’irrompere sul mercato della domanda di prodotti bio ha comportato conseguenze in ambito scientifico, nelle università e nella ricerca applicata. Ha inoltre promosso gli investimenti delle grandi multinazionali della chimica e dell’agroindustria; ha imposto modifiche all’organizzazione e alla gestione delle aziende di produzione che hanno affrontato la riconversione; ha stimolato la nascita di specifiche professionalità tecniche e di una nuova generazione di consulenti; infine, ma non per questo l’elenco ne risulterebbe completo, ha stimolato l’interesse di grandi gruppi industriali nello sviluppo di nuove e più efficienti macchine agricole, come di una sensoristica più precisa e sofisticata. L’industria non si muove per caso e non investe risorse nella progettazione di una nuova famiglia di macchinari senza averne attentamente valutato, a livello globale, il potenziale di crescita.
Diventare un’azienda biologica, implica necessariamente l’adozione di un’organizzazione del lavoro più dinamica e puntuale, ma significa, innanzitutto, gestire la produzione con un’attenzione particolare rivolta alla fertilità dei suoli e alla biodiversità del territorio. Per questi motivi, per così dire “di contesto”, assumono particolare rilevanza le esperienze di Distretto di cui parla Sandra Furlan in uno degli interventi di questo numero.
Se consideriamo la qualità e la quantità delle innovazioni generate dalla produzione biologica, appare evidente la portata delle trasformazioni che ha generato. Parafrasando il noto assunto della teoria del caos, il battito d’ali di un piccolo gruppo di “consumatori evoluti” ha generato, a distanza di un paio di decenni, enormi conseguenze scientifiche, industriali, economiche, organizzative, ambientali ecc.
E non è che l’inizio!
I dati statistici che presentiamo nelle pagine seguenti – aggiornati al 2016 – mostrano inequivocabilmente che a livello planetario la cosiddetta Organic Economy ha già raggiunto dimensioni considerevoli, con vendite totali pari a quasi 85 miliardi di euro, il 90% dei quali concentrati in Europa e Nord America. Altrettanto esplicativi sono i dati relativi alle superfici coltivate (quadruplicate in 20 anni), alle colture e al numero di imprese e di agricoltori impegnati; ma soprattutto emerge la velocità con cui il bio è cresciuto e si è affermato.
Non dobbiamo peraltro considerare questi numeri, sia pur rilevanti in valore assoluto, come l’apice di un processo che ha già esaurito la sua spinta: tutto lascia pensare che il mercato mondiale crescerà ancora molto e rapidamente, e trascinerà con sé, oltre ai consumi, radicali mutamenti socioeconomici. Già oggi è possibile individuare alcuni orientamenti prevalenti, a partire da una chiara suddivisione geopolitica tra Paesi produttori – di mediterraneo, Africa, Sud America, Asia – e mercati di sbocco, quasi del tutto confinati a Nord America, Europa continentale e Scandinavia.
Ma è il dato monetario quello che più di altri ci conferma con inequivocabile chiarezza la tendenza futura. Prendiamo, come modello esemplificativo, il caso italiano. Nel 2016 il nostro Paese ospitava, secondo ISMEA, oltre 72.000 operatori con produzioni biologiche (con il 14,5% della SAU, una tra le percentuali più alte al mondo) destinate sia al mercato interno che all’esportazione; a fronte di ciò, le vendite complessive di prodotti bio sul mercato interno ammontavano ad appena 2,64 miliardi di Euro, con una spesa media annua pro capite di 44 Euro, pari a solo l’1,2% del totale della spesa alimentare. Inoltre, secondo i rilevamenti di Nomisma, la crescita dei consumi Bio è proseguita con notevole intensità anche nel 2017, e nello stesso anno il 78% delle famiglie italiane aveva acquistato almeno un prodotto bio, con un incremento di 1 milione di famiglie rispetto all’anno precedente. Se pensiamo che, sempre nel 2016, la spesa media pro capite in Svizzera era di 274 Euro (poco meno di 8 volte quella italiana), in Danimarca 227, in Svezia 197, negli USA 121 e in Germania 116 (2,6 volte quella italiana), ci rendiamo immediatamente conto del potenziale di espansione del mercato domestico e quali conseguenze innescherà sulla struttura agricola e agroindustriale nazionale. Per ogni 10 euro di incremento della spesa pro capite bio il mercato interno genererà circa 600 milioni di fatturato aggiuntivo, mentre se la spesa media raggiungesse – per esempio – quella del Canada (83 Euro pro capite), il mercato quasi raddoppierebbe di valore, superando i 5 miliardi. Sul breve periodo è probabile, peraltro, che la crescita della domanda interna genererà tensioni sui prezzi dei prodotti bio e un incremento netto delle importazioni, visto che la produzione nazionale difficilmente potrà crescere agli stessi ritmi. Per soddisfare una domanda aggiuntiva del 10% le imprese certificate dovrebbero crescere di alcune migliaia di unità, così come le superfici coltivate e tutta una serie di altri fattori collegati.
Il futuro, non v’è alcun dubbio, è bio. Tuttavia, se prendiamo in esame l’evoluzione degli stili di consumo nei Paesi occidentali, appare evidente che la certificazione biologica sarà sempre più considerata un prerequisito qualitativo, basti osservare i tender sul vino di alcuni monopoli nord americani e scandinavi. “Organic” è destinato a diventare una sorta di standard minimo della qualità certificata, al quale i “consumatori evoluti” chiederanno (ma in parte già chiedono) di aggiungere sempre nuove garanzie a tutela di valori specifici. Da anni il mercato tende ad una inarrestabile frammentazione negli stili di consumo, ognuno dei quali riflette distinte sensibilità etiche e culturali. Un esempio è dato dalla crescita del fenomeno vegetariano/vegano. Secondo i rilevamenti Nielsen ripresi ancora da Nomisma, gli Italiani che seguono una dieta vegana o vegetariana rappresenterebbero oggi l’8% della popolazione, mentre le vendite di prodotti “vegan” sono cresciute in un solo anno (tra il 2015 e il 2016) del 10%. Sono dati che devono far riflettere gli addetti ai lavori, perché delineano una propensione di lungo periodo che difficilmente potrà essere smentita. Ma quella vegana/vegetariana non è l’unica tendenza che possiamo facilmente individuare: una crescente importanza sta assumendo l’osservanza di valori etici, come ci confermano alcuni imprenditori bio che intervengono nelle pagine seguenti. Per valori etici si può intendere una vasta gamma di posizioni che vanno dal rispetto della dignità dei lavoratori e degli obblighi contrattuali, fino alla rispetto della parità di genere. All’elenco potremmo aggiungere i valori ambientali, il rispetto per il benessere degli animali e delle loro condizioni di allevamento e così via, ma la sostanza è che stiamo vedendo il tramonto dei consumi di massa come eravamo abituati a considerarli fino a pochi anni addietro.
L’irruzione prepotente della qualità e del suo “corollario identitario” – ovvero il territorio, che si manifesta in un numero crescente di Denominazioni di Origine – ha aperto la strada ad una rivoluzione nei consumi alimentari. Nel quotidiano dei “consumatori evoluti” il peso delle cosiddette commodity tende progressivamente a ridursi, mentre acquisiscono importanza quei prodotti che riescono ad interpretare i valori di gruppi specifici, o nicchie di consumatori più o meno estese. Ciò non significa, ovviamente, decretare la fine immediata delle produzioni di massa; significa però, fare i conti con un mercato che diventa via via più complesso, che si trasforma con maggiore velocità, che richiede adattamenti pressoché in tempo reale. Per alcuni aspetti un mercato più remunerativo ma anche più difficile.
Per le società di certificazione queste trasformazioni equivalgono ad altrettante sfide, perché saranno chiamate a garantire ulteriori contenuti interpretando i sempre nuovi bisogni che la società continuerà ad esprimere. Un compito complesso e stimolante, che le spingerà ad innovare di continuo prodotti e procedure.
Gran parte delle attività di Valoritalia sono concentrate nel settore vitivinicolo, del quale certifica 228 Denominazioni di Origine che coprono circa il 50% della produzione nazionale a DO, e oltre 50 mila operatori sono inseriti nei suoi sistemi di verifica e controllo. Come tutti i comparti dell’agroalimentare, anche quello vitivinicolo è stato – ed è tuttora – attraversato da una forte spinta all’innovazione, in una prima fase rivolta alla ricerca di una crescente qualità organolettica, mentre nell’ultimo decennio l’attenzione è sembrata spostarsi decisamente verso modelli di produzione più “sostenibili”, attenti alla biodiversità e allo stesso tempo rispettosi di determinati valori etici.
La conversione al biologico è diventata la protagonista assoluta di questi anni, basti pensare che in alcune denominazioni vitivinicole la quota delle superfici certificate ha superato il 30% del totale, con una accelerazione che non accenna a diminuire. Ma una quota significativa di imprese si è spinta, in un certo senso, oltre il biologico: “biodinamico”, “naturale”, “vegano”, sono tutte definizioni che da un lato sottintendono modi differenti di produrre e anche stili diversi di prodotto, ma dall’altro palesano il tentativo di coprire specifiche nicchie di consumatori.
A un mercato segmentato si risponde con una pluralità di prodotti, ognuno dei quali tenta di rappresentare una distinta identità che collimi che quella del potenziale target. Con i loro cambiamenti le imprese provano a coprire nuovi bisogni ma, allo stesso tempo, promuovono la domanda di nuovi servizi, compresi quelli di fornire garanzie ai consumatori. Per Valoritalia il fuoco della sua missione è di cogliere questi cambiamenti, e in coerenza con questa filosofia negli ultimi anni abbiamo promosso, tra i nostri servizi, la certificazione biologica e il nuovo standard Equalitas, che si propone di certificare la sostenibilità in base a tre pilastri: sociale, ambientale, economico. Iniziative che stanno riscuotendo un notevole successo tra i nostri clienti – non solo nel mondo del vino – e che a breve saranno seguiti da altri servizi di certificazione.
Per l’appunto il futuro è bio, ma non solo.