Niente sarà come prima: consumi e mercato dopo il lockdown.

Quale sia la gravità e quali i caratteri della crisi innescata dal coronavirus ormai è chiaro a tutti.

Il colpo per il settore del vino, considerato nel suo complesso, è certamente tra i più duri della sua storia anche se i problemi, come sempre in un mondo così vario e frammentato, non sono per tutti gli stessi. Dove la situazione appare più severa è senza dubbio nel segmento delle imprese che più dipendono dal canale HoReCa – per lo più aziende della fascia media e medio-alta del mercato – dal momento che le stime attuali prevedono per il 2020 un crollo del giro d’affari di almeno il 50% in valore, ma tutto lascia pensare che alle fine le cose andranno anche peggio. È infatti difficile immaginare che in questa parte del mercato si possa tornare alla normalità in tempi brevi, dal momento che l’incertezza regnerà sovrana fino a quando non ci sarà una soluzione (un vaccino, una sicurezza sull’immunità, una cura che possa bloccare la malattia sul nascere o quant’altro), in grado di rassicurare i consumatori. Fino a quel momento in quanti si fideranno a frequentare come prima luoghi chiusi e affollati? Ma, soprattutto, come potrà riprendere ad un ritmo accettabile il turismo? Alcune ricerche hanno infatti mostrato che, in questo momento, anche in quei paesi dove non è stato imposto il lockdown e dove non sono stati impediti gli spostamenti, anche internazionali, il turismo e l’intrattenimento sono crollati di oltre l’ottanta per cento.

Sarebbe tuttavia miope ritenere che gli effetti più seri dell’attuale situazione possano essere circoscritti solo alle imprese che più dipendono dall’HoReCa e che le imprese che utilizzano prevalentemente altri canali quali la GDO e l’online possano sfuggire al protrarsi di una situazione di crisi generalizzata. Per quanto riguarda il vino non possiamo infatti non immaginare, probabilmente, che solo alcuni marchi “iconici” e di estrema nicchia potranno continuare a vendere più o meno come prima; per il resto non è pensabile che il solo consumo individuale o “in famiglia” possa compensare la perdita di quei consumi che sono legati ai momenti di convivialità, ovunque questi abbiamo luogo.

Ma il problema più grosso sono però le prospettive dell’economia internazionale; è facile infatti prevedere che nei prossimi mesi dovremo affrontare uno stato recessivo a cui nessuna economia riuscirà a sottrarsi totalmente; che si tradurrà inevitabilmente in minor reddito disponibile, minori consumi, minori esportazioni.

Dette tutte le buone ragioni per essere preoccupati, proviamo a capire se ci possono essere anche motivi per mantenere un po’ di ottimismo ma, soprattutto, quali siano gli interventi che possono essere messi in atto per fronteggiare nell’immediato l’emergenza e quali per affrontare le sfide che il prossimo futuro porrà di fronte agli operatori del settore.

A mio parere la fondamentale ragione per mantenere un minimo (o un massimo) di ottimismo è che, pur in una situazione così drammatica, tutti i segnali indicano che il vino – soprattutto il vino di qualità – è ormai entrato a far parte in modo profondo e radicato delle abitudini di consumo di fasce sempre più ampie di popolazione, in Italia e nel mondo. Non esistono ancora dati precisi e consolidati, ma tutta una serie di indicatori quali l’andamento delle vendite online, lo scanning delle conversazioni sui social network e su siti e blog specializzati, sembrano dipingere uno scenario che, almeno in prospettiva, è rassicurante. In questo momento potrà forse sembrare poco, ma invito chi può a ricordare quale fosse la situazione del mercato e della produzione non più di trent’anni fa e a rendersi conto di quanta strada è stata fatta e che non si tornerà indietro. Non appena ci sarà la ripartenza è verosimile che qualcosa nel mercato ricomincerà a muoversi; dapprima piano piano, e in gran parte grazie alla incredibile creatività e capacità di adattamento di tanti imprenditori ma poi, quando finalmente si potrà tornare ad una nuova normalità, la ripresa sarà probabilmente travolgente (e anche questo sarà un passaggio da gestire con attenzione).

Nel mentre che cosa fare? Qui è inevitabile una netta distinzione tra quello che va fatto nell’immediato e quello che si potrà (dovrà) fare guardando al futuro.

Il settore del vino, nonostante i cambiamenti intervenuti negli ultimi decenni, ha sempre alcune fondamentali debolezze. Una prima discende dai caratteri dei processi produttivi e commerciali che gli sono propri: a differenza di quanto potrà avvenire in altri comparti, nel vino, nella migliore delle ipotesi, rischia di vedere compromesso non tanto il fatturato di qualche mese, ma quello un’intera annata produttiva e commerciale. Inoltre, anche nel momento della ripresa si dovranno gestire le non indifferenti giacenze che nel frattempo si saranno presumibilmente accumulate. La seconda debolezza risiede nella struttura del settore: il mondo del vino è una realtà estremamente frammentata in cui convivono imprese dalle caratteristiche più diverse; quelle che possono contare su una proprietà particolarmente solida probabilmente riusciranno a superare questa difficile fase in modo relativamente tranquillo; ma sono moltissime le imprese che negli ultimi anni hanno fatto investimenti importanti, per lo più finanziati a debito, e che non hanno ancora raggiunto un grado di solidità economico-finanziaria tale da permettere loro di riuscire a resistere ad un simile cataclisma senza mettere qualche seria ipoteca sul proprio futuro.

Sta di fatto che molte delle imprese a maggior rischio sono soprattutto quelle di dimensione piccola e media, che si sono maggiormente impegnate sul fronte della qualità, della sostenibilità e del presidio del territorio: ovvero di un patrimonio che, soprattutto in un paese come l’Italia, va difeso ad ogni costo. A questo fine non credo possa esistere nient’altro che una soluzione: ricreare cash flow.

In altre parole mettere a disposizione delle imprese che ne hanno più bisogno, quel volano finanziario che quest’anno non potrà venire dal flusso delle vendite. Ben venga se questo supporto sarà in parte a fondo perduto o se sarà utilizzato anche per andare ancora avanti nella ricerca di sempre maggiore qualità e sostenibilità. L’importate è che questa finanza arrivi prima possibile, costi il meno possibile e che l’onere della restituzione sia spalmabile in non meno di 10 anni, meglio se 15 o di più.

Non riesco a immaginare quale altra soluzione sia concretamente percorribile e praticabile, dal momento che se un’impresa ha buoni fondamentali in 10 o 15 anni può sicuramente ammortizzare gli effetti di un anno difficile.

Sappiamo che le istituzioni hanno già iniziato a muoversi in questa direzione, anche se i problemi che stanno emergendo nella “execution” delle misure adottate non sono pochi. Uno su tutti: non aver inquadrato bene il profilo di responsabilità giuridica degli istituti di credito chiamati ad erogare i prestiti. Le banche sono infatti tenute a rispettare le norme vigenti nella valutazione del merito di credito delle imprese: un compito non semplice, anzi al limite della “mission impossible”, in un frangente in cui ogni previsione è quantomeno azzardata. Ma qui non si può sperare altro che, sotto la spinta della necessità, tutte le parti coinvolte riescano a superare sul piano politico e amministrativo le attuali criticità.

Che cosa potrà poi avvenire una volta raggiunta una nuova normalità?

In questo momento sono in molti a prevedere cambiamenti radicali soprattutto nel campo dei canali commerciali, in particolare mettendo in discussione il ruolo dell’HoReCa e prevedendo grandi cambiamenti nell’ambito dei processi di distribuzione.

Francamente non riesco a capire cosa potrà cambiare soprattutto dal punto di vista dell’HoReCa. Se sarà possibile – come certamente sarà possibile – tornare a stare insieme in un ristorante, in un wine bar, in un albergo, ecc.; non ci sono ragioni per immaginare perché, passata la crisi, debba avvenire un radicale cambiamento dei modelli di consumo, che già si sono evoluti in modo straordinario negli ultimi quarant’anni. Un po’ più difficile è dire cosa potrà avvenire nel campo delle strutture e dei meccanismi di distribuzione commerciale collegati all’HoReCa.

Certamente fa effetto sentire che alcuni colossi della distribuzione statunitense stanno valutando la possibilità di convertirsi completamente all’online (peraltro in un paese dove le normative rendono difficili le vendite online). È possibile, anzi è certo, che, così come sta accadendo in molti altri settori, il digitale avrà sempre più spazio e ci saranno sicuramente delle importanti innovazioni nelle modalità operative delle aziende specializzate nella distribuzione commerciale del vino, ma più che una totale rivoluzione vedo un’evoluzione che richiederà comunque il suo tempo.

Credo che cambiamenti altrettanto significativi dovranno essere affrontati dalle aziende di produzione e, ragionando in questi giorni, su questo aspetto mi sono venute in mente soprattutto tre parole: risk management, flessibilità e brand.

Sul primo punto, il risk management, non credo sia qui il caso di soffermarci.

Oltre ad essere un tema molto tecnico, non è argomento specifico del settore del vino. Ormai da tempo sono sempre più le imprese che dedicano una crescente attenzione alle metodologie di gestione strutturata dei rischi d’impresa e, tra queste, ve ne sono anche nel campo del vino.

Dopo esperienze come quelle che stiamo vivendo, è prevedibile o almeno auspicabile, che la sensibilità su questo aspetto sarà sempre più diffusa.

Secondo: la flessibilità. Da molti anni sono convinto che le logiche di prodotto adottate da gran parte delle imprese vinicole, non siano sempre del tutto ben congegnate, tenuto conto di quali sono le esigenze di flessibilità delle aziende e quali le reali percezioni e aspettative dei consumatori. Mi rendo conto che è un argomento da affrontare con estrema prudenza, perché si tratta di un terreno in cui è facile correre il rischio di essere fraintesi e quindi evito di entrare nello specifico. Mi limito ad osservare che ci sono enormi margini per recuperare quella flessibilità che sempre – ma soprattutto in momenti come questi – è un bene prezioso. Non si deve però avere paura di innovare.

Chi ha vissuto la trasformazione dell’enologia italiana dovrebbe ricordare bene il ruolo avuto dal manipolo di innovatori che hanno gettato le basi per quello che poi è stato chiamato il “rinascimento” del vino italiano: pensiamo all’esempio della Toscana e a come l’idea di alcuni di produrre vini senza più mischiare uve rosse e bianche apparve a tanti all’epoca blasfema, invocando una tradizione che nasceva da un fraintendimento, così come alcuni anni fa ha brillantemente chiarito il collega Zeffiro Ciuffoletti, in uno studio sugli archivi di casa Ricasoli. Non si deve avere paura di innovare: l’innovazione ben fatta non va mai contro la qualità, il territorio, la sostenibilità, ma anzi li esalta.

Terzo: il Brand. Anche questa è una parola che, non di rado, nel mondo del vino è fraintesa nel suo vero significato. Eppure è proprio alla capacità di costruirsi un brand di buona o di ottima reputazione che le imprese e i territori del vino devono, più di ogni altra cosa, il loro successo. Non ho dubbi che, come già è stato nel corso di tutta la storia del vino di qualità, nei prossimi anni sarà sempre più importante per le imprese vitivinicole e per le loro associazioni investire nel gestire sempre meglio i loro brand. Nel vino di qualità la marca non è mai da intendere come qualcosa di “artificiale” che sostituisce e si sovrappone ai contenuti più prettamente qualitativi; è invece lo strumento principe per rendere e dare valore e corpo a questi contenuti – fatti di qualità, in tutti i modi in cui questo termine può essere inteso, di stile dei produttori e dei territori, di storie e di idee da raccontare, di sicurezza alimentare – così come per proiettare nel futuro questo valore. Investendo sulla conoscenza e la valorizzazione della marca, sarà possibile avvicinare sempre di più il cliente al produttore ed al territorio. Conoscendoli sempre meglio per nome (perché la marca, prima di tutto, ci dà un’identità) e permettendo loro di associare ad ognuno di questi brand i valori che le imprese hanno saputo costruire e trasmettere (che è la seconda fondamentale funzione della marca). In un mondo in cui avranno sempre più importanza i valori immateriali ed il mondo digitale, creare questa conoscenza e questo contatto diretto sarà sempre più importante; un mondo, o meglio una rete, tanto potente quanto ampia e complessa, in cui può essere facile perdersi.

Vincenzo Zampi
Professore ordinario di Management nell’Università di Firenze

Biografia
Vincenzo Zampi è professore ordinario di Management nell’Università di Firenze, dove insegna Strategia d’impresa e Innovation management e dove è stato sino al 2019 Presidente della Scuola di Economia e Management. Si occupa di wine business sin dalla metà degli anni ’80 del secolo scorso, dapprima come produttore e successivamente come ricercatore, docente e consulente. È stato tra i co-fondatori del Master in Management e Marketing delle imprese vitivinicole che dal 2001 ad oggi ha permesso a molti giovani di avviarsi al lavoro in aziende del settore. È autore di numerose pubblicazioni sul tema del vino, che hanno avuto per oggetto sia il management ed il marketing in questo settore, sia la sua evoluzione storica.